Il caso Namascè: quando giovani imprenditori riescono a trattenere giovani lavoratori
Sulle vetrine di ristoranti e bar di tutta Italia, da mesi compare lo stesso
cartello: “Cercasi personale”. Ma non è solo un problema momentaneo:
secondo l’Osservatorio Assolavoro Datalab, mancano oltre 340.000
operatori del settore. La causa non sta solo nella congiuntura, ma in
condizioni di lavoro spesso respingenti per i più giovani: stipendi bassi,
turni estenuanti, contratti precari o del tutto assenti.
Così il mondo della ristorazione, che per anni ha rappresentato un’“entrata
facile” nel mercato del lavoro per moltissimi under 30, perde attrattività. O,
più precisamente, perde credibilità. Perché oggi i giovani non si accontentano
di un lavoro qualsiasi: cercano luoghi dove contare, crescere, sentirsi
riconosciuti. Eppure, c’è chi riesce a invertire la rotta.
Il bar dove il lavoro è relazione
A Milano, in zona Porta Romana, c’è un locale di quartiere che funziona
diversamente. Si chiama Namascè — in dialetto pugliese significa “andiamo”
— ed è nato nel 2023 da una scelta di vita e di lavoro dei suoi due titolari,
Ludovica (31 anni) e Angelo (38). Si conoscono, si innamorano, si sposano,
e decidono di aprire un bar che sia, nelle loro parole, “una casa per chi ci
lavora, non solo per chi entra come cliente”.
Una visione che può suonare idealistica, ma che poggia su basi solide:
entrambi hanno alle spalle anni di lavoro alle dipendenze di altri, vissuti
anche con fatica. Ed è proprio da quell’esperienza che nasce la loro idea
imprenditoriale: costruire l’ambiente di lavoro che avrebbero voluto
trovare quando hanno iniziato.
Non un benefit, ma un principio: rispetto
«Il nostro obiettivo è far trovare ai nostri dipendenti l’ambiente che noi
avremmo desiderato per noi stessi: è l’unica strada perseguibile per non fare
male a nessuno», spiega Ludovica.
Lo sottolinea anche Angelo: «In questo modo si crea un circolo virtuoso: se
chi lavora è felice e sta bene si nota, e si lavora meglio. Se, al contrario, è
infelice e insoddisfatto diventa una situazione controproducente, soprattutto
perché avendo a che fare con clientela abituale il nostro obiettivo è quello di
creare un clima familiare perché chi passa da Namascè si possa sentire a
casa».
Dai contratti ai turni: il lavoro come tempo di qualità
Non si tratta di “coccolare” i dipendenti, ma di restituire dignità al lavoro. Il
rispetto passa per contratti chiari, retribuzioni coerenti, dialogo continuo con
il team, gestione dei turni equilibrata e soprattutto nessuna gerarchiaabusiva. I due titolari conoscono bene le dinamiche che trasformano tanti
locali in ambienti tossici e proprio per questo le evitano con lucidità.
«Abbiamo voluto che Namascè fosse un posto dove si sceglie di stare. Non
dove si sopravvive», dicono. E la differenza si vede.
Di contro, la richiesta che muovono ai propri dipendenti è quella di sposare
davvero il progetto: non lavorare per portare a casa la paghetta, ma dare un
po’ di sé stessi per costruire qualcosa insieme, all’insegna di uno sforzo
reciproco e bilaterale che unisce e costruisce.
I giovani scelgono chi li sceglie
Lo confermano anche i giovani che ci lavorano. Caterina, 21 anni, cameriera,
definisce Namascè “una seconda casa”. «Quello che rende il locale unico è il
rapporto che si è creato tra tutti noi, il cui collante è l’assoluta gentilezza e
disponibilità di Ludovica e Angelo. È raro, soprattutto in una città come
Milano, trovare un luogo che dia ancora valore alle persone, dedicando loro
attenzione, prendendosene cura, ascoltandole».
Giovanni, 23 anni, barman, racconta: «Il locale è vivo, cambia, si evolve con
eventi nuovi. La squadra è unita, sembra davvero di stare in famiglia mentre
si lavora. Ma sempre con professionalità, che è la nostra parola d’ordine.
Ludovica e Angelo sono davvero stati in grado di imparare dalla loro
esperienza di dipendenti, creando un piccolo universo che accoglie tutti,
clienti e lavoratori».
Entrambi sottolineano un punto chiave per chi si occupa di lavoro giovanile: i
giovani non rifiutano il lavoro, ma rifiutano di essere invisibili. Vogliono
imparare, contribuire, portare idee, a patto che esista un contesto che le
valorizzi.
Un modello replicabile?
Namascè non è un’eccezione romantica: è un esperimento concreto di
leadership generativa nel mondo del lavoro. Parte dalla ristorazione, ma
può ispirare anche altri settori in crisi di attrattività.
Ludovica e Angelo, con semplicità, si rivolgono agli altri imprenditori: «Fate
quello che avreste voluto fosse fatto a voi. Sono le persone a muovere
qualsiasi attività, non solo nel mondo della ristorazione, ed è solo con la cura
reciproca che l’impresa può fiorire.».
Non serve una rivoluzione, ma una riformulazione dell’approccio: mettere
al centro le persone, uscire dalla logica dell’emergenza, costruire relazioni
fondate su empatia e rispetto.
Forse è proprio questa la chiave per fra tornare i giovani, e non solo, a credere nel lavoro.
Chiara Occioni


