«Dimenticate la carriera lineare, oggi il lavoro è un flusso circolare»

Fuori il senior, dentro il giovane. Per anni si è ragionato così nelle aziende. Il percorso lineare pensione-assunzione ha garantito un ricambio generazionale costante senza scossoni. Oggi questo «continente della serenità» è stato squassato da una faglia che si è aperta tra generazioni. Così il senior non esce e il giovane fatica a entrare, se entra spesso esce alla svelta. E siamo solo agli inizi. Le scosse sono destinate ad aumentare di intensità perché sotto la faglia c’è una bomba demografica a orologeria che è ormai pronta a esplodere: i giovani saranno sempre meno. Così, entrare oggi in un’azienda significa trovarsi davanti a un mosaico inedito: quattro, a volte cinque generazioni sotto lo stesso tetto. Mai era successo prima in Italia. Una convivenza che porta con sé approcci diversi al lavoro, non solo per cultura ma anche per età.

Aldo Cristadoro, ceo di Excellera Intelligence

La Gen Z non è un pianeta a sé. Ma chiede con forza autonomia (59%), riconoscimento delle competenze (43%) e soprattutto benessere, più che carriera. Un ribaltamento rispetto ai genitori, spesso infelici e disillusi. «Il punto – sottolinea Cristadoro – non è difendersi dalla mobilità dei giovani, ma progettare le aziende dando per scontato che il turnover sarà più alto. Non possiamo più pensare alla carriera come a un percorso lineare: entrata, formazione, crescita, pensione. Bisogna inventare ruoli che cambiano lungo la vita professionale, integrando tecnologia e nuovi modi di lavorare».

Schema circolare, non più lineare

Cristadoro invita a superare l’idea della linearità: «Non funziona più lo schema “assumo un giovane, lo formo, cresce e resta fino alla pensione”. Oggi serve un modello circolare: al centro ci sono le persone con esperienza, attorno devono circolare i giovani, pronti a sostituire chi se ne va. Non una staffetta secca, ma un ecosistema in movimento». In questa visione, il lavoro diventa un flusso continuo. Chi ha esperienza trasmette conoscenza, i giovani apprendono e portano competenze nuove, mentre la tecnologia diventa il collante che permette di mantenere alta la produttività nonostante la riduzione demografica. La crisi demografica impone un cambio di prospettiva. Nel 2053 un italiano su tre avrà più di 65 anni. «Per troppo tempo – continua Cristadoro – si è pensato a un ricambio generazionale meccanico: un senior esce, un giovane entra. Oggi non funziona più. Servono politiche che trattengano i lavoratori più anziani, ridisegnando i loro compiti: un operaio che a 25 anni sposta pacchi, a 55 può diventare formatore interno o supervisore».

Secondo l’Osservatorio Delta Index, oltre un quarto delle imprese già indica il trattenere come priorità. Ma la sfida è culturale: «Superare la logica della sostituzione e guardare alla popolazione aziendale come un unicum: diverse età, diversi contributi, stessa missione».

La bomba demografica

Cristadoro parla chiaro: «Ci mancheranno milioni di lavoratori. Possiamo agire solo in tre modi: fare più figli – ma è un investimento che dà frutti tra venticinque anni; puntare sull’immigrazione – che però richiede politiche di lungo periodo, formazione e inclusione; e investire sulla tecnologia, l’unico strumento capace di compensare subito la carenza di persone». E qui entra in gioco l’intelligenza artificiale. «Si discute se porterà via posti di lavoro. Io dico: magari. Perché se fino a ieri per scrivere codice servivano mesi di formazione, oggi un giovane che sa dare la giusta direzione a un modello generativo può fare in poche ore quello che prima richiedeva settimane. Non sostituisce le persone, ma le potenzia, liberando risorse e tempo».

Reputazione del lavoro

La ricerca Grafton mostra un quadro inedito: solo il 12% dei ragazzi associa il successo alla carriera, mentre il 33% lo lega al benessere personale. «Si tratta anche di una reazione alla narrazione negativa del lavoro – spiega Cristadoro – che per anni è stata trasmessa da più fronti: in famiglia, con genitori che dicevano “non vedo l’ora di andare in pensione”; a scuola, dove il lavoro raramente viene presentato come occasione di crescita e realizzazione; nelle istituzioni e nei media, che troppo spesso lo descrivono sottopagato, instabile, poco stimolante. Il risultato è che molti ragazzi entrano nel mercato convinti che il lavoro in Italia sia inevitabilmente precario e non meritocratico. Questo genera un danno reputazionale enorme, che indebolisce l’attrattività del lavoro, blocca le energie e mina la fiducia dei giovani».

Giovani in fuga (o quasi)

Un altro dato significativo riguarda la disponibilità a guardare oltre confine. Quattro giovani su dieci sarebbero disposti a trasferirsi all’estero. Lo farebbero soprattutto per ragioni economiche, ma anche per arricchire la propria esperienza di vita. È un segnale che dovrebbe preoccupare le imprese italiane: in un mercato già povero di nuove leve, rischiamo di perdere anche quelle disponibili se non riusciamo a garantire prospettive solide e coerenti. «E il dato più preoccupante – aggiunge Cristadoro – è che sono pochissimi i giovani che rientrano in Italia»

Fragilità e bisogno di guida

Accanto alle aspettative elevate, emerge però un tratto meno discusso: la fragilità. «La Gen Z – sottolinea Cristadoro – si affaccia al lavoro con una fragilità di fondo molto più ampia rispetto alle generazioni precedenti. È cresciuta in un contesto che ha promesso molto e mantenuto poco, e spesso vive una distanza forte tra le proprie aspettative e la realtà che incontra in azienda. Questo genera delusione e insicurezza, amplificate dal fatto che i giovani hanno poca abitudine a essere valutati e a gestire il peso di un giudizio negativo o di un insuccesso.

«La Gen Z – sottolinea Cristadoro – si affaccia al lavoro con una fragilità di fondo molto più ampia rispetto alle generazioni precedenti. È cresciuta in un contesto che ha promesso molto e mantenuto poco, e spesso vive una distanza forte tra le proprie aspettative e la realtà che incontra in azienda»

Per questo sempre più spesso chiedono anche un supporto psicologico: non tanto come protezione, ma come strumento per affrontare conflitti, frustrazioni e inevitabili tensioni che emergono in qualsiasi luogo di lavoro. Di fronte a questa fragilità, le imprese sono chiamate a un ruolo nuovo: non limitarsi a offrire benefit superficiali, ma diventare una vera guida. I ragazzi chiedono all’azienda un percorso serio e credibile, fatto di crescita reale, formazione continua e accompagnamento autentico, che dia direzione e fiducia».

Strategie per le imprese

Cosa fare allora, concretamente? Cristadoro indica tre piste. Innanzitutto accettare il turnover: «I giovani cambiano spesso, ma non è un’anomalia. È il mercato che offre più opportunità. Le aziende non devono inseguire la fedeltà a tutti i costi, ma organizzarsi per gestire una rotazione fisiologica». Poi ripensare le carriere: «Non più solo crescita verticale. Servono percorsi orizzontali e modulari, in cui un dipendente può spostarsi tra funzioni diverse nel corso della vita lavorativa. È il modo per valorizzare le competenze e ridurre il rischio di perdita di capitale umano». Infine, ma non ultima per importanza, usare la tecnologia come alleata: «Non difensiva, ma proattiva. Dalla robotica all’IA, gli strumenti digitali devono essere visti come mezzi per colmare i buchi di personale e aumentare la produttività».

Dal Delta Index alle aziende

I dati dell’Osservatorio Delta Index confermano la distanza tra le aspettative dei giovani e le pratiche delle imprese sottolineate da Cristadoro. Molte aziende faticano a usare i social in modo autentico, a costruire percorsi di onboarding o a valorizzare le soft skills. Al contrario, i ragazzi chiedono dialogo, percorsi chiari e coerenza. «La vera innovazione – conclude Cristadoro – non è difendersi, ma disegnare un nuovo patto tra generazioni, supportato da tecnologie che liberino tempo e risorse. Solo così potremo trasformare la bomba demografica in un’opportunità di produttività».

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